Sventurata la terra che ha bisogno di eroi!
Questa frase di Bertolt Brecht, una tra le più celebri del poeta e drammaturgo tedesco, ci è saltata subito alla mente quando abbiamo visto le foto del Carabiniere aggredito da un extracomunitario ad Avezzano, in provincia dell’Aquila. Sinceramente l’abbiamo pensato ancor di più non solo per la vile aggressione che il collega ha dovuto subire, quanto nel vedere la sua uniforme, la nostra uniforme macchiata di sangue sui post di questo o di quel politico di turno. Qualunque sia lo schieramento, sia ben chiaro.
Ancora, dopo pochi giorni dall’aggressione al collega di Avezzano, ecco che il 21 giugno u.s. un collega del “III Reggimento Lombardia”, libero dal servizio, interviene per sedare una rissa sfociata alle 2 di notte tra gli avventori di un bar, e subito viene massacrato dagli stessi, almeno una decina di persone. Il militare durante vile aggressione viene colpito al volto, alla testa, al torace e quindi ricoverato a Fatebenefratelli mentre uno dei rissanti (si scoprirà dopo essere anche stavolta extracomunitario), al San Raffaele.
Neanche il tempo di somatizzare le vili aggressioni (anche se diciamolo pure, ci siamo a abituati da appena 206 anni), ed ecco che nella scorsa nottata (29.06.2020) un collega della Radiomobile in provincia di Bologna, viene travolto mentre procedeva al controllo di un’autovettura segnalata come oggetto di furto. Siamo a abituati alle aggressioni, lo si mette in conto ogni santo giorno quando inforchiamo le bande rosse e con orgoglio annodiamo la cravatta della nostra amata uniforme. Siamo consapevoli dei rischi ma ogni tanto qualcuno si ferma e si chiede se è possibile ragionare sulle cause, sui motivi di criticità persistenti, sulla possibilità di rivedere le modalità di intervento consentite, codificarle a tutela dell’operatore che ha pure la pretesa di riportare la pelle a casa!
Non ci importa in questo momento stabilire l’etnia o il colore della pelle dei vari aggressori, perché non vorremo neanche lontanamente spostarci sul guado del preconcetto nei confronti degli extracomunitari, stranieri regolari o irregolari che siano. Un’aggressione, da qualunque parti arrivi, è comunque un’aggressione di troppo. Certo, nelle nostre menti di semplici operatori su strada, gli interrogativi rimangono, si affastellano, ma le risposte le dovrebbe dare chi da troppo tempo tace e continua a tacere. I numeri parlano chiaro: un esercito di 600 mila irregolari sul nostro territorio di cui nessuno parla mentre gli sbarchi sulle nostre coste non sembrano arrestarsi.
Ci si può meravigliare, ancora oggi, nel 2020, se questi 600 mila “invisibili”, uomini e donne senza dimora, lavoro, residenza, senza un documento, relegati negli “interstizi sociali” ai limiti della sopravvivenza quotidiana, abbiano un atteggiamento aggressivo contro chi – contro ogni opportunistica logica – cerca ancora di mantenere un minimo di ordine nelle nostre città, contro tutto e contro tutti? Chiedere contezza della propria presenza, magari alle 2 della notte davanti a un bar, chiedere l’esibizione di un documento, può avere ancora senso, se comunque, anche se non lo hai e se non lo hai mai avuto, se non hai un luogo dove vivere o i mezzi per sostentarti, non ha la ben che minima importanza? Che senso ha affollare gli uffici nelle Questure per avere un pezzo di carta che sancisce che sei immigrato irregolare, clandestino e che devi lasciare il suolo nazionale? Può avere senso se ne fai una raccolta, magari per collezionismo, giusto perché il prossimo telegiornale dica che “nonostante il decreto di espulsione di 5 anni fa, si trovava ancora in Italia e continuava a delinquere”. Il problema non è vietare l’ingresso o la permanenza di stranieri extracomunitari, il vero problema è preoccuparsi di cosa facciano dopo, di dove e di cosa vivano, sono esseri umani e bisogna preoccuparsi della loro dignità. Sì, ci dobbiamo chiedere seriamente se con la nostra solidarietà di facciata, non creiamo di fatto le condizioni ideali per fare esplodere gli animi, per concentrare in piccolo o grandi centri, esseri umani che qualcosa devono pur fare, di qualcosa dovranno pur vivere e in qualche modo – inevitabilmente – manifesteranno bisogni e disagi e lo faranno nelle forme e nei modi che i loro usi e costumi gli hanno insegnato mentre noi attoniti lo consentiamo ormai incondizionatamente.
Quando ingresso, permanenza, condizioni di vita e sociali non sono disciplinate, tanto che puoi tranquillamente permetterti di ubriacarti alle 2 della notte al centro al Milano, far scattare una rissa, aggredire un Carabiniere, perché comunque si troverà l’esimente del disagio sociale, delle ristrettezze economiche, delle precarie condizioni di vita davanti “al violento oppositore delle libertà” che agisce (o ancora crede di agire) in nome di uno Stato che, purtroppo, sembra non aver ancora deciso se voglia fare o meno “lo Stato” . Ma tornando all’ennesimo collega aggredito, alla sicurezza che sembra venire declinata in modo differente in funzione del colore politico delle labbra che la pronunciano, credo che bisognerebbe riflettere sul fatto che “sicurezza”, “patria”, “rispetto”, “dignità”, “onestà”, “legalità”, “solidarietà” (e l’elenco continuerebbe ancora) dovrebbero appartenere ad un vocabolario privo di colore politico.
Sono concetti di tutti i cittadini che si identificano in un contratto di convivenza civile, sono concetti universali, trasversali apartitici. “Sventurato il Carabiniere tirato per la giacca”, sventurato il fratello italiano in uniforme – qualunque essa sia – che diventa paravento o specchietto per lo spot politico del partito politico di turno. Sì. Poveri noi se per strappare qualche like diventiamo vittime sacrificali sull’altare della sicurezza “percepita”, che nulla a che fare con quella “reale”. In questo momento, soprattutto sui social, l’uniforme è sicuramente meno “cool”, sono più di tendenza gli hashtag contro la polizia o i carabinieri e di conseguenza, in questa tendenza di odio generalizzata, non meravigliano le vili aggressioni che si susseguono sempre più frequentemente. Abbiamo gli intramontabili ACAB, c’è chi vuole il codice a barre sulle uniformi e perché no, magari anche il codice fiscale; chi tira giù le statue o le imbratta. Non mi meraviglierei se a breve bruceranno i libri, come nei roghi nazisti delle SS.
Se ci pensa bene, è paradossale dover ricevere sui social la solidarietà politica di una parte, non tanto perché amplifica il silenzio assordante di un’altra, quanto, piuttosto, perché alla fine ci si rende conto che non è quello ciò di cui abbiamo bisogno, non è quello che ci serve. Ripeto: da qualunque parte arrivi. La foto del carabiniere che gronda di sangue, le dita staccate al collega della Polizia Penitenziaria aggredito da un detenuto al 41 bis, apprendere il pestaggio del collega a Milano, il fratello della Radiomobile travolto alle 3 di notte dall’auto rubata, sono notizie che colpiscono allo stomaco, fanno montare rabbia e indignazione ma la mente lucida ti fa comprendere che non hai bisogno del like o della condivisione del post. La solidarietà è gratis, non costa nulla, forse apparentemente lenisce il dolore, ma è un palliativo: non risolve il problema. La questione è strutturale, attiene ai mezzi, ai numeri, alle dotazioni che mancano e che avrebbero evitato quelle aggressioni ed anche quei suicidi. Perché noi, dei suicidi, non ci dimentichiamo e mai ci dimenticheremo. Li abbiamo scolpiti nella mente. Tutti. Uno per uno. Dateci meno like, meno solidarietà di facciata e più taser, confini chiari e certi con codificate e cristalline modalità di intervento, dove l’operatore su strada non abbia timore di ripercussioni o di essere travolti come birilli, vogliamo norme non opinabili ma univoche sulle “regole di ingaggio”, che non si prestino ad interpretazioni soggettive in funzione alle altitudini o latitudini delle sede dei Tribunali o ad un eccessiva discrezionalità interpretativa. Lontani dalle polemiche che hanno recentemente investito il CSM e che non ci riguardano, ma sull’eccessiva discrezionalità qualcuno, prima o poi, dovrà avere il coraggio di discutere. Questo è utile e indispensabile anche e soprattutto per individuare e punire in modo certo soprattutto l’abuso. Volontario o involontario che sia. Basta improvvisazione, basta con l’arte dell’arrangiarsi e lo “speriamo che mi vada bene”, al netto dei video virali diffusi sui social con l’equipaggio di turno protagonista, di cui più volte abbiamo parlato. Dateci più carceri meno affollate dove i detenuti riescano a vivere in condizioni di minore cattività, dove i colleghi non debbano sopportare turni stressanti e massacranti per sopperire alle carenze organiche. Dateci delle norme serie, nelle quali il carabiniere con il codice a barre, codice fiscale e numero di carta di identità impressi sul casco (per buona pace di tutti, finalmente appagati), possa vedere il suo vile aggressore – di qualunque etnia e nazionalità – scontare la giusta pena stabilita in un democratico e civile processo, evitando le porte girevoli del tribunale o del carcere, per sentirsi dire “che il suo stato sociale lo costringeva a delinquere per sopravvivere”. Evitateci di dover provare a garantire l’ordine e la sicurezza di cittadini ormai attoniti, arresi davanti interi quartieri o palazzi occupati da uomini e donne “invisibili”, orde di disperati che vagano alla ricerca di sopravvivere in qualche modo, con qualunque espediente all’ennesima giornata, magari ubriacandosi al bar per poi far sfociare le risse o giocare a boowling per strada con gli equipaggi della radiomobile. Lo chiediamo per il rispetto della loro dignità di esseri umani prima di tutto e, non in ultimo, se permettete, anche per il sacro santo diritto degli altri cittadini a vivere sereni e tranquilli.
Qualcuno dimentica che, prima di ogni cosa, noi cittadini in uniforme abbiamo un primigenio dovere nei confronti delle nostre famiglie (che non sono seconde a nessuno), delle nostre mogli, dei nostri mariti e dei nostri figli: tornare la sera a casa, possibilmente interi, sani e salvi.
Non ci servono like, non abbi amo bisogno di condivisioni virtuali di foto, abbiamo bisogno di condivisioni reali di problematiche di cittadini in uniforme, che necessitano di mezzi, uomini, ma soprattutto di leggi serie, certe, degne di un paese serio. Un paese che non diventi preda di orde di disperati provenienti dall’esterno, ormai forti di un sentimento diffuso di impunità ed al contempo non esploda dall’interno per la rabbia di chi si chiede dove sia lo Stato, facendosi giustizia da sé, poiché circondato dall’incertezza, dall’improvvisazione. Non c’entra il lockdown, non c’entra il coronavirus né il “blacklivesmetter” o altre armi di distrazioni di massa. Esiste un paese reale, con problemi reali e persone in uniforme disposte a dare la vita per la loro patria, la loro nazione ed i loro fratelli italiani, con i quali vorrebbero semplicemente condividere un idea comune di paese, un insieme di valori universalmente condivisi; ormai troppo spesso ci interrogano se, di fatto, si vada tutti nella stessa direzione e se esista o meno una volontà seria e reale di tutelarci, proteggerci, di metterci nelle condizioni di perseguire realmente lo scopo del nostro lavoro, gli obiettivi e le finalità del nostro giuramento. Noi, senza piangere miseria, abbiamo gli stipendi più bassi d’Europa, una legislazione che sembra tutelare chi delinque piuttosto che chi opera su strada. Non abbiamo neanche la certezza di una pensione dignitosa, dovremo continuare a prendere botte per 40 anni almeno, senza una seria previdenza completare che vigliaccamente ancora non si vuole far decollare, non la si vuole concretizzare, lasciandoci con la certezza che saremo noi i futuri poveri delle mense sociali, mentre qualcuno ha il coraggio di voler ripristinare vitalizi che sono arrivati a dare anche 2300 euro al mese di pensione a chi ha esercitato solo per una settimana il suo mandato.
Non condividete virtualmente i nostri problemi ma risolveteli realmente nelle sedi deputate che non sono i social, ma hanno nomi, perché a quello siete chiamati e per quello siete pagati. State comunque sereni e certi che, nel frattempo, noi continueremo ad onorare il nostro giuramento, nonostante tutto e con la sensazione, a volte, di avere tutti contro.
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