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Suicidi nell’Arma

Cinque suicidi tra le file dell’Arma nel solo mese di settembre non si possono tacere e se aggiungiamo l’ennesimo gesto estremo avvenuto appena qualche giorno fa, il 27 ottobre del 2021, ecco che viene voglia di urlare, di emettere un grido di dolore: BASTA! Non è un voler cavalcare l’onda della notizia in modo sensazionalistico, quanto, piuttosto, dare seguito a quel sussulto che parte dallo stomaco, arriva al cuore e ci lascia attoniti, sgomenti. Un solo suicidio è sempre e comunque un suicidio di troppo, a maggior ragione quando, senza voler parlare di numeri e statistiche, deteniamo un triste record, un tristissimo primato. Solo qualche giorno fa abbiamo affrontato il problema in un nostro editoriale. Lo ripetiamo, solo nel mese di settembre del 2021 sono stati ben cinque militari dell’Arma a porre fine alla loro vita in casa, sul posto di lavoro, in servizio e con l’arma di ordinanza. Ieri, a Sant’Agata Feltria (Rimini), l’ennesimo suicidio. Più di venti in questo 2021, ma ovviamente non disponiamo di dati ufficiali. Chioggia, Firenze, Viterbo, Reggio Emilia, Rimini, dietro ogni numerino c’è una vita, una famiglia, sogni e aspettative legittime che si sono fermate nel più triste dei modi. Un trafiletto, due righe, notizie striminzite e poi il dimenticatoio. Alziamo ancora una volta la voce perché su questo punto non tacciamo e non taceremo mai! Occorre fermarsi, capire e formarsi seriamente per formare. Vogliamo vedere come hanno affrontato questo problema per capire quali soluzioni hanno già adottato e quali strade sono state già intraprese e con quali risultati? Pretendiamo che il problema sia affrontato in modo serio ed organico, misurandoci e confrontandoci anche con altri stati europei, come la Francia ad esempio, che nella Gendarmeria ha un problema molto serio e simile al nostro. Abbiamo visto che il parlare e parlare non porta a nulla. Qual è il risultato di anni di commissioni parlamentari e tavoli tecnici? Quali soluzioni hanno posto sul campo? Dov’è stata la rivoluzione nell’approccio al problema? Qualcuno ha visto cambiare qualcosa? Chiediamo che la questione sia affrontata seriamente a cominciare dalla formazione che già avviene nelle Scuole Ufficiali, ma alla quale è necessario dare maggiore importanza con specifiche competenze nel campo. A seguire, la stessa formazione deve essere trasposta nelle Scuole Marescialli e via via a cascata. Non basta insegnare a pretendere il “Signore” peraltro abolito negli anni ’80, non serve insegnare solo codici penali militari e di disciplina! L’azione di comando è soprattutto comprendere, percepire e prevenire. Per fare questo occorre un cambio di mentalità poiché ove si esercita il comando si intrecciano vite, famiglie, stress, problematiche che vanno evitate, analizzate e affrontare in modo competente, riconosciute ed eventualmente segnalate per essere risolte nell’interesse di tutti. Poiché il sindacato deve essere pragmatico per definizione e non deve perdersi in parole che rischiano di suonare vuote, vogliamo parlare in modo esplicito, chiaro e reale: Qualcuno che siede a quei tavoli tecnici, lo sa che ci sono reparti dove alle 9 della sera, il militare non sa quale servizio dovrà intraprendere l’indomani? Dove la Questura non ha ancora diramato l’elenco degli Ordini Pubblici e quindi, a cascata, alle 10 della sera vieni improvvisamente precettato? Qualcuno a quei tavoli tecnici lo sa che non esiste una reale pianificazione dei servizi al memoriale, e che un militare dell’Arma non riesce a pianificare la sua vita, non è in grado di dire alla moglie e ai tuoi figli se l’indomani sera potranno andare a mangiare una pizza con gli amici o far visita ai nonni? (vedremo la nuova applicazione al memoriale elettronico quale reale attuazione avrà!). Non sono questi elementi di stress e di ansia? Organizzare la propria vita, il proprio tempo libero e le necessità della famiglia, sono esigenze ritenute primarie? Realmente? Ma come questo, potremmo elencare centinaia di esempi. Sicuramente a quei tavoli sanno benissimo che troppo spesso il comando è inteso come l’orticello, il feudo del barone di turno che con cadenza di tre/quattro anni fa il buono ed il cattivo tempo, decidendo le sorti dei sudditi. Licenze, trasferimenti, impieghi, note caratteristiche e giudizi che spesso vengono espressi da persone che, forse, necessiterebbero che qualcuno valutasse prima la loro capacità di comandare, la loro serenità psicofisica e la loro stabilità mentale per gestire centinaia di persone. Qualcuno lo verifica? Qualcuno controlla periodicamente la stabilità di chi decide della vita di decine o centinaia di militari e delle loro famiglie? C’è voluta Piacenza per comprendere che la ricerca statistica dell’arresto a tutti i costi non è proficua, che non serve il numerino sulla tabella dell’attività operativa per giudicare l’efficienza di un reparto a scapito di altri principi etici e fondamentali, anzi, identitari. Cosa serve ancora per capire che le note caratteristiche sono una spada di Damocle spesso in mano a persone, la cui stabilità non viene provata e confermata nel tempo, che servono solo per tenere al guinzaglio uomini e donne che sanno che quel giudizio sarà decisivo per il concorso al passaggio di categoria, per l’avanzamento, per il punteggio del trasferimento ed il ritorno vicino casa. Serve un diverso approccio “rivoluzionario” che metta al centro il reale benessere del personale e che valuti gli elementi di ansia e stress su uomini e donne che già devono sopportare questo carico dentro l’ufficio, che nel frattempo hanno lasciato a casa i problemi familiari e che ancora devono uscire di pattuglia per svolgere un servizio che non è affatto una passeggiata, consapevoli che saranno posti difronte ad ulteriori elementi stress in mezzo alla gente, al crimine, alle paure ed alle ansie, con un’unica certezza: “speriamo che vada tutto bene e che Dio me la mandi buona, perché io esco di servizio per difendere la gente, ma se succede qualcosa, a me chi mi difende?”.

Ma dobbiamo essere reali, schietti e per farlo, continuiamo ad essere ancora più chiari e pratici: Se anche il collega accanto sembrasse dare segni di una qualche dipendenza (da gioco, debiti, alcool) o dimostrasse una qualche instabilità nell’umore e nell’atteggiamento, cosa si può fare veramente oggi? Cosa puoi fare quando sai benissimo che viene preso, messo in malattia per sei mesi, decurtazione dello stipendio e trattato come un malato e appestato! In questo modo tutti fingono di non sapere, di non capire, di non vedere, per non assumersi la responsabilità di una decisione, la paura di eventuali ricorsi e controdenunce che ti bloccano la carriera e non diventi più generale. Subentra lo scrupolo di “non rovinare” il collega. Diciamoci la verità, per una volta, almeno tra di noi: si è si persa la bussola, si è perso il contatto con le cose reali ed il bisogno di un fratello diventa “un problema, una rogna” da affrontare. Meglio che se ne faccia carico l’infermeria e me lo scrollo di dosso! Meglio ancora se lo puniscono e lo trasferiscono, così lo gestisce qualcun altro, anzi, “se lo piange” qualcun altro! E se poi cade in depressione? Dove risiede l’interesse di aiutare e risolvere i problemi che spesso sfociano nei suicidi? Ne abbiamo i mezzi? I protocolli che oggi si attivano vanno in una direzione di aiuto e sostegno o piuttosto sono caratterizzati da una azione lesiva, punitiva e quindi peggiorativa della condizione del collega? Il nocciolo della questione è tutto lì, perché poi non bisogna meravigliarsi e chiedersi: “Ma come? Nessuno sapeva? Nessuno aveva capito? Nessuno aveva colto qualcosa?”. La domanda vera è: “e cosa avrebbe dovuto fare? E cosa sarebbe successo dopo? Ed al collega, come sarebbe finita?”. Questa è la domanda delle domande! Questo è l’aspetto rivoluzionario che occorre affrontare con un cambio di passo, di strategia, di prospettiva attuando protocolli meno punitivi e di reale aiuto del collega in difficoltà, perché “nessuno si salva da solo”. Corri a chiedere aiuto quando sai che dall’altra parte qualcuno ti aiuta realmente e non peggiora le cose; quando hai la certezza che laddove è possibile, non si perde il lavoro, non si perdono indennità, non si rischia di mandare in mezzo alla strada una famiglia, non viene “trasferito” il problema ad altri con l’aggravio della situazione. Fin qui il problema è relativo al collega, alla persona con cui lavori giorno e notte. Ma quando l’instabilità proviene dall’alto, quando i motivi di stress e di ansia promanano da chi ti comanda e coordina a livelli più alti, a chi ti rivolgi? Ad un sindacato che sindacato non è perché la politica non vuole dargli i poteri e le competenze di un vero sindacato, con la complicità degli stati maggiori che preferiscono gestire e comandare dall’olimpo, lontani dal mondo reale? A chi ti rivolgi? Al diretto superiore? E chi lo farebbe, senza timori (o meglio certezze) di ripercussioni, punizioni, trasferimenti o denunce per calunnia e qualche altra decina di reati militari? Il servizio di psicologia, l’accesso a queste fondamentali figure professionali deve essere potenziato e favorito slegando le stesse dalla gerarchia di comando, magari esternalizzandolo, al fine di poter realmente vedere in loro una figura amica e non il superiore da temere che ti congeda! Statisticamente, quanta “bassa manovalanza” è stata mandata a visita e quanti, invece, con delicati ed alti incarichi di comando sono stati sottoposti a controllo psicologico? Vogliamo chiederci il perché di questo o continuiamo a fingere di non capire che così, il sistema non funziona? Occorre ribadire il concetto: bisogna slegare l’accesso al servizio di psicologia dalla rigida gerarchia militare (onde prevenire il mancato ricorrervi per il timore di ripercussioni) ed al contempo prevedere momenti di verifica anche e soprattutto nei confronti di chi esercita funzioni delicate di comando e che può ingenerare quei fattori di stress ed ansia, troppo spesso immotivati – che possono potenzialmente concorrere al compimento di insani gesti. Occorre, al contempo, dare la possibilità ad ogni militare – ma anche e soprattutto al sindacato – di segnalare a questi organi le situazioni di disagio dei singoli o di reparti interi, scuri che non vi sarà alcuna ritorsione, al fine di prevenire quella che è ormai una vera e propria mattanza silenziosa!

Noi del SIM non mettiamo la polvere sotto il tappeto, vogliamo scuoterli una volta e per tutte questi tappeti, pieni di polvere sopra e sotto!

Noi del SIM non vogliamo snocciolare sterili e freddi dati statici mese per mese. Vogliamo sederci, discutere, offrire idee e confrontarci con professionisti che vogliono affrontare seriamente il problema. Vogliamo delle risposte, vogliamo un cambio di passo e di mentalità e continueremo a pretenderlo denunciando questa silenziosa mattanza che da troppo tempo va avanti, nell’indifferenza, nella volontà di scaricare il barile ad altri.

Insieme si vince. Restiamo uniti.

A cura di Arturo Davide Villagrasso

SIM CARABINIERI

 

 

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